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Ottavio Pratesi

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La sua casa era diventata una Sant'Elena, lui che aveva partecipato a giri d'Italia e tour de France con Binda e Girardengo, Calzolari e Bottecchia nell'epoca eroica del ciclismo sulle strade sterrate sulle quali correva da isolato, come chiamavano i corridori che non avevano squadra, facendo la sua corsa senza dover sottostare ad ordini di scuderia: era il capitano di se stesso.

La sua corsa era quella dei tre mari che vinse due volte. Tirreno, Adriatico, Ionio. “Dall'uno all'altro mar”.

Come una punizione dantesca, dopo tanto vagare, abitava in una palazzina nei pressi della ferrovia, vicino alla stazione di Antignano e tutti i giorni attraversava i binari per fare solo poche centinaia di metri per andare al distributore che gestiva sull'Aurelia nell'ultimo tratto rettilineo verso sud, prima che diventi un serpente che avvolge il Romito.

La bici un ricordo lasciato sulle strade polverose delle Alpi e dei Pirenei, ed ora solo un mezzo inutile, “chiuso in si breve sponda”, tra lo sferragliare dei treni che sfrecciavano senza fermarsi davanti casa ed il rumore continuo delle auto della statale, ossessivo come un fiume impetuoso, immerso tutto il giorno nell'odore della gomma e della benzina.

Quando io l'ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio, o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola. Mio nonno lo salutava ogni volta che passavamo dalla via di Banditella, dopo il campino di calcio, ormai dismesso tra gli ulivi, come si fa con un vecchio compagno di scuola schivo e riservato.

La sera, nelle estati degli anni sessanta accanto alla sua bici, si godeva il tramonto, uguale ed opposto a quello goduto al di la' del mare di Nizza nel suo primo tour del 1911, ricordando il sole che spariva ad ovest dietro ai monti.

E “dei di che furono l'assalse il sovvenir...”

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